Castelmeteo. Un sito dedicato a Castelvetro di Modena, meteorologia, arte, gallerie di foto antiche, moderne e la storia dell'antica fornace. A cura di Vinicio Cavallini
LA MIA ARGENTIERA
Non è mai facile raccontare la storia di un paese, perché essa è l'insieme di
fatti e di comportamenti, è l'unione di fatti che generano comportamenti e di
comportamenti che generano fatti. E spesso è difficile distinguere gli uni dagli
altri. I ricordi poi si accavallano nella mente e si fa fatica a rimetterli in
ordine cronologico. La mia struttura mentale, inoltre, è tale per cui rimuovo
molto del mio passato. Ci sono persone che ricordano perfettamente i primissimi
anni di scuola, mentre io non ricordo nulla. E' vero che il primo anno lo feci
da auditore, ossia da privatista; avevo cinque anni e non potendo perciò
frequentare la regolare prima elementare, dovevo andare a lezione privata e poi
fare l'esame per superare il primo anno e poter essere iscritto regolarmente al
secondo anno all'età di sei anni. Dato che sono nato nel 1943, quando ero
auditore correva l'anno 1948/49: Quanto tempo fa! Non c'erano difficoltà perché
facessi le lezioni private dal momento che abitavamo di fianco alla signora Noce
le cui tre figlie erano maestre ed insegnavano nella nostra scuola. Non ricordo
quale di loro mi fece lezione o se addirittura io frequentassi ugualmente le
lezioni a scuola, in forma, diciamo, ufficiosa. Abitavamo sopra la Cantina: noi,
la famiglia Noce appunto e dall'altra parte la famiglia Zannin, la famiglia
Ceraulo, e, poco più in là, zia Speranzica e mastro Eligio.
Il mio paese era una miniera. Una miniera non ha niente a che vedere con un
paese: é una comunità nella quale la gente proviene da tanti posti diversi,
quindi cosmopolita; la struttura di una miniera è diversa da quella di un paese:
le case sono differenti e disseminate un po' qua e un po' là senza uno sviluppo
logico che possa portare alla formazione di strade regolari e di piazze come
appunto succede in un paese. La caratteristica cosmopolita significava anche che
non esisteva un dialetto unico per tutti, la lingua comune era l'italiano.
C'erano infatti persone di Sassari, di Alghero, di Sorso, di Portotorres, del
Nuorese, del Cagliaritano, e poi c'erano veneti, toscani, siciliani, milanesi;
ogni tanto circolavano anche francesi e belgi. La Cantina era l'unico negozio
dove si potevano acquistare i generi alimentari, frutta e verdura e, in un
secondo tempo, anche scarpe e vestiario( solo dopo qualche anno fu concesso a
dei privati di gestire un negozio di frutta e verdura e una macelleria ). Era
gestita dalla Società proprietaria della miniera e al momento dell'acquisto
delle merci non si pagava: ogni famiglia aveva un "libretto" nel quale veniva
segnato dagli addetti, dipendenti della Società, tutto ciò che si acquistava.
Alla fine del mese venivano effettuati i conteggi e l'importo che ne scaturiva
veniva trattenuto dalle buste paga dei titolari dei libretti. Naturalmente
c'erano spesso delle contestazioni da parte di coloro che nutrivano scarsa
fiducia sulla serietà degli addetti alla cantina e talvolta succedeva alle
famiglie più numerose o a quelle più spendaccione di superare la paga mensile e
perciò di andare "di sotto" come si usava dire.
Per noi bambini andare a fare la spesa era il più delle volte una rottura di
scatole perché bisognava fare la fila, ma talvolta era anche un divertimento
perché si sentivano un mucchio di storie e di pettegolezzi. Lo spiazzo davanti
alla cantina era il posto dove noi giocavamo ai vari giochi di quel tempo: al
pallone, con il cerchio, alle cinque pietre, con i carretti costruiti dai
bambini più grandi che non capivo mai come facessero a procurarsi i cuscinetti a
sfera che mi attiravano tanto. Il gioco che mi emozionava di più era quello dei
bottoni, che normalmente giocavamo davanti a scuola perché lì non passavano
automezzi e quindi potevamo stare inchinati senza preoccuparci di ciò che
accadeva intorno; Ninuccio era sicuramente il più bravo, quello che possedeva
più bottoni in assoluto e quello che aveva i bottoni più rari, cosa per cui era
invidiato da quasi tutti noi; consisteva nel riuscire a spingere il proprio
bottone con le dita fino a farlo cadere all'interno di una buca chiamata "garicio":
colui che riusciva in questo intento prima degli altri partecipanti vinceva
tutti i bottoni in gara. Era insomma una specie di golf dei "molto" poveri!
Davanti alla Cantina la Società faceva accatastare talvolta i tronchi di legno
che servivano poi per armare le gallerie e queste cataste erano il luogo ideale
per giocare a nascondino, soprattutto nelle calde notti d'estate, quando i
grandi si radunavano per chiacchierare e ascoltare storie incredibili raccontate
il più delle volte da sig. Ceraulo.
Nelle sere d'inverno invece una delle cose che ci dava più emozione era andare a
"rubare legna" ossia andare a raccogliere i pezzi di tronchi marci che erano
stati tolti dalle gallerie ed utilizzarli nel caminetto di casa. L'emozione
nasceva dal fatto che ci dicevano che era proibito prenderli e che se ci
avessero trovato le guardie giurate sarebbero stati guai grossi! Non ho mai
saputo se ciò fosse vero o se fosse una invenzione dei "grandi" per divertirsi
nel vederci preoccupati dopo che eravamo riusciti a rubarne qualche pezzo. I
tronchi bruciavano bene anche perché erano intrisi di sostanze velenose
necessarie per evitare che fossero attaccati dai tarli quando venivano usati
come "quadri". Il legname infatti serviva principalmente ad armare le gallerie,
ossia a realizzare un arco (quadro) in legno che reggesse la volta della
galleria stessa e ne impedisse il crollo sopra gli operai che lavoravano.
C'erano perciò delle vasche piene di tali veleni nelle quali venivano immersi i
tronchi prima della loro utilizzazione e noi non potevamo nemmeno avvicinarci a
tali vasche data la loro pericolosità.
Del periodo in cui siamo stati "in cantina" i riferimenti principali erano
l'ufficio di Babbo, il compressore e zia Speranzica con il figlio mastro Eligio:
l'ufficio di Babbo era chiamato Ufficio Cottimi, perché lì si svolgeva il lavoro
di conteggio delle ore lavorate dagli operai e delle quantità di minerale
estratto da ognuno di loro: si chiamava cosi perché il lavoro era a cottimo,
cioè più uno estraeva minerale nelle otto ore di lavoro e più era pagato; era
l'applicazione del metodo Bedau (un Francese o Belga che aveva inventato questo
modo di lavorare per far rendere di più gli operai). L'ufficio di Babbo è per me
associato al ciclismo, perché durante il Giro d'Italia o il Tour de France ogni
giorno ascoltavo alla radio l'arrivo della tappa e poi andavo da Lui per fare il
resoconto, snocciolando l'ordine di arrivo con i minuti di distacco (allora
l'unità di misura dei distacchi era sicuramente il minuto e non il secondo come
oggi!), la classifica generale aggiornata e gli episodi più significativi
accaduti nella tappa. Non entravo però nell'ufficio, mi fermavo vicino ad una
piccola finestra che risultava molto bassa rispetto al terreno tanto che quasi
mi dovevo coricare in terra per parlare con Babbo. Tutto ciò avveniva
puntualmente ogni pomeriggio e questo incarico mi serviva per evitare di
coricarmi dopo pranzo, cosa che odiavo sopra ogni altra. A casa di nonna questa
mia idiosincrasia era motivo di scontro con zia Antonietta che voleva sempre che
mi coricassi perché bisognava riposarsi o perché c'era la "mamma del sole" che
mi avrebbe creato non so quali brutte cose! In realtà lei non voleva fastidi
quando poi si sarebbe coricata, ma soprattutto non voleva che io passassi in
continuazione in cucina e nel soggiorno mentre lavava in terra, cosa per la
quale, mi dicono anche oggi, avevo proprio un talento naturale!
Andare da Babbo per il resoconto della tappa, significava dimostrare a me stesso
molto coraggio dal momento che l'ufficio risultava alle spalle del temutissimo
compressore. Serviva ad inviare aria compressa all'interno della miniera per
fornire una giusta areazione agli operai che vi lavoravano (in seguito l'aria
compressa servì anche per automatizzare alcune operazioni di scarico dei vagoni
pieni di minerale che arrivavano dal pozzo). Aveva un grandissimo volano, penso
almeno due metri di diametro, che già incuteva un po' di paura, ma la cosa che
temevamo molto era il momento in cui veniva scaricata l'aria in eccesso perché
il rumore che faceva era fortissimo, come quello di una bomba, anche se non
c'era alcun pericolo. Quando si passava di fronte percorrendo la curva, detta
appunto del compressore, nel momento in cui l'addetto scaricava improvvisamente
l'aria lo spavento era grandissimo e, quando succedeva a me, mi mettevo a
correre impazzito e mi ritrovavo in cantina senza nemmeno rendermene conto. La
cosa incredibile era la fase di avvicinamento alla curva piena di ansia
crescente mano a mano che mi avvicinavo, che faceva sì che io, ad un certo
punto, effettuassi uno scatto da centometrista per superare il punto critico nel
più breve tempo possibile; in definitiva la curva del compressore la percorrevo
sempre di corsa, ad eccezione della domenica e dei giorni di festa nei quali in
miniera non si lavorava e perciò il compressore era spento.
Credo che il momento in cui veniva scaricata l'aria fosse casuale o quantomeno
dipendente da ragioni tecniche ma certamente qualcuno degli addetti talvolta lo
faceva apposta, per divertirsi a osservare qualche persona che, spaventata,
reagiva in modo curioso. Una delle persone soggette a questo scherzo era
sicuramente zia Speranzica: viveva in una casupola posta in un piccolo
promontorio sopra la curva del compressore e quindi di fronte al compressore
stesso, con il figlio mastro Eligio, un fabbro che lavorava nell'officina
meccanica che c'era a pozzo Podestà. Erano persone che non facevano niente di
male ma stavano sempre bisticciando a voce alta e se ne dicevano di tutti i
colori, rigorosamente in dialetto portotorrese quando erano sobri e in italiano
quando erano ubriachi. Zia Speranzica spettegolava un po' di tutti soprattutto
di quelli che la trattavano male e la prendevano in giro, ma devo dire che la
nostra famiglia era da lei considerata una famiglia per bene perché non la
offendevamo mai e perché quando la incontravamo salutavamo sempre in maniera
educata: <<buon giorno zia Speranzica>>, e questo le faceva piacere. Io ero
convinto che mastro Eligio fosse il marito di zia Speranzica; che fosse il
figlio e non il marito lo scoprii abbastanza tardi, anche se li conoscevo da
quando ero nato. Quando avrò avuto sei o sette anni, un giorno, ero in cantina
nel reparto di frutta e verdura nel quale si trovava anche mastro Eligio che
comprò tre carciofi: erano i primi della stagione e perciò qualcosa di raro e
costoso; vedendo che io stavo per andare via mi disse: "vai e porta questi tre
carciofi a mamma". Io andai a casa e dissi a mia madre che mastro Eligio mi
aveva dato quei tre carciofi per lei; mamma si meravigliò un po' di tanta
gentilezza ma poi non ci pensò più. Verso mezzo giorno venne a casa zia
Speranzica a chiedere che fine avessero fatto i suoi carciofi, cioè quelli che,
diceva, mastro Eligio mi aveva dato da portare a lei. Non ricordo se almeno uno
lo avessimo già mangiato, fatto sta che dopo una lunga discussione tra me, mia
madre e zia Speranzica scoprii che mastro Eligio era il figlio e non il marito
di zia Speranzica e che perciò i carciofi erano per sua madre e non per la mia.
Chiarito l'equivoco tutto si aggiustò, anche se non so se Mamma ricomprò e
restituì alla legittima proprietaria il carciofo mancante.
Malgrado questo episodio increscioso(!) i rapporti con zia
Speranzica e mastro Eligio rimasero buoni.
Devo dire , per la verità, che avevamo buoni rapporti con tutti anche perché le
persone che ci vivevano accanto erano tutte buonissime.
Ero sempre di corsa, io non camminavo, correvo: era la mia passione, sia quando
facevo "la moto", sia quando facevo le gare, che vincevo regolarmente; era anche
qualcosa di utile perché quando qualche bambino più grande mi voleva picchiare,
io avevo sempre la mia arma segreta che era fuggire, sapendo che l'aggressore
difficilmente mi avrebbe raggiunto! però anche qualche problema l'ho avuto, come
quella volta che mi sono "abbracciato" alla vespa di Mario Pala, mentre uscivo a
tutta velocità dalla stradina di casa e lui percorreva la strada di fronte alla
cantina in direzione di miniera vecchia. Mario Pala era l'infermiere
dell'Argentiera che tutti i giorni faceva il giro degli ammalati che avevano
bisogno di qualche iniezione o di qualche medicazione e che non potevano recarsi
in infermeria. Già perché una miniera è uno stabilimento industriale, in questo
caso lontano ben 40 chilometri dal più vicino ospedale, e quindi necessitava di
un presidio sanitario con la presenza di un medico e di almeno un infermiere.
Anche il medico faceva tutti i giorni il giro degli ammalati che erano costretti
a letto per seguire il decorso della malattia. Il dottor Serra, così si chiamava
il dottore che ho conosciuto io, era l'unico oltre al direttore della miniera a
possedere un'automobile; era molto simpatico, abbastanza alto e magro come uno
stecco, bravissimo pianista, che stava tutto il giorno lucidandosi la macchina
dopo che aveva finito il giro delle visite.
Nell'incidente con la vespa di Mario Pala in realtà non mi feci nemmeno un
graffio, solo un po' di spavento per cui me ne tornai a casa senza dire niente a
mamma; dopo un po' arrivò Mario Pala a chiedere come stavo e mamma cadde dalle
nuvole perché non ne sapeva niente!
L'altra volta che ebbi dei problemi a causa delle mie corse fu quando, andando
da zio Pazzola, un fruttivendolo sennorese che aveva il negozio dopo la Laveria,
percorrendo la piazza velocissimo mi attraversò la strada una muta di cani,
saranno stati una quindicina; io ci finii in mezzo cadendo rovinosamente a
terra, mi sfasciai un ginocchio e perciò, dolorante e pieno di sangue, me ne
tornai a casa senza nemmeno arrivare al negozio.
Di fronte a zio Pazzola c'era la macelleria di Dedola nella quale si faceva
anche il ghiaccio : era sempre una cosa curiosa vedere questi grandi pani di
ghiaccio che si formavano in modo per me misterioso; nessuno sapeva mai
spiegarmi come diavolo venissero fuori dall'acqua!
Si scendeva in piazza anche per andare a comprare il latte alla latteria di zia
Dassu: anche lì bisognava fare la fila e spesso succedevano delle zuffe perché
qualcuno non rispettava il suo turno. Una volta, mentre con Claudio ritornavamo
a casa dopo aver comprato il latte, ci fermammo nel piazzale vicino a pozzo
Podestà e ci mettemmo a giocare con i carrelli che venivano usati per
trasportare il minerale dal pozzo alla Laveria; questi carrelli correvano su dei
binari, noi cercavamo di spingerne uno ma siccome era pesante non ci riuscivamo;
allora io feci forza sulle ruote e quando il carrello si mosse una delle ruote
mi passò sopra le dita delle mani, schiacciandomele. La cosa strana fu che
praticamente mi trasudò il sangue dalle dita senza che ci fossero delle ferite.
Quando arrivammo a casa Mamma si spaventò e io per paura di essere picchiato,
perché ci avevano sempre detto di non giocare con i carrelli, raccontai che mi
ero sbattuto al carrello mentre correvo.
La piazza era il punto di aggregazione per tutta la miniera: c'erano gli uffici
della direzione, l'ufficio postale, la caserma delle guardie di finanza, il
dopolavoro operai e il circolo impiegati.
Era anche il punto di arrivo della corriera(mi piace chiamarla così, come la
chiamavamo noi, e non pullman o autobus che sanno molto di città).
Per andare a Sassari esisteva solo una corsa: si partiva la mattina alle cinque
e mezza, per arrivare dopo due ore e 42 chilometri di strada bianca tutta a
fossi. Il viaggio sembrava molto simile a quelli delle diligenze dei film
western perché oltre al fatto che la corriera si fermava in qualunque punto
della strada dove ci fosse una persona che aspettava, quando si arrivava
all'Emiciclo ognuno di noi era bianco dalla polvere, stanco e con la bocca secca
per cui la prima cosa che faceva era entrare al bar per bere qualcosa.
Il viaggio di ritorno iniziava all'Emiciclo alle tre e mezza del pomeriggio e
terminava in piazza alle cinque e mezza. L'arrivo della corriera era sempre un
avvenimento e perciò a quell'ora c'era sempre un capannello di persone che si
trovavano li, chi per aspettare un familiare, chi per curiosare e se del caso
poi spettegolare e recare notizie fresche a casa sulle novità portate dalle
persone che arrivavano dalla città. Proprio come nel vecchio west quando
arrivava la diligenza. Infatti c'era anche una serie di invii da e per Sassari
di buste, pacchi e pacchetti che venivano affidati all'autista o al fattorino
per essere consegnati poi a qualche parente che aspettava o all'Emiciclo o in
piazza.
Le valigie e i bagagli più grandi venivano messi sull'imperiale(il tetto del
pullman) al quale si accedeva salendo su una scala a pioli attaccata alla parte
posteriore della corriera. Ogni tanto qualche bagaglio volava per strada, quando
non era stato fissato bene ed allora bisognava fermarsi per raccoglierlo.
Proprio come nelle diligenze!
Non era possibile andare e tornare in giornata partendo da Sassari. Chi arrivava
all'Argentiera in corriera doveva per forza pernottare lì.
Quando stavamo in "cantina", in piazza non andavamo spesso, se non per qualche
motivo specifico, perché preferivamo giocare vicino a casa. Soltanto Babbo,
terminato il lavoro, andava lì soprattutto per recarsi al circolo impiegati.
Già, perché per nostra fortuna(!) Babbo era un impiegato!
La suddivisione in classi sociali era molto marcata in miniera: C'era il
Direttore, il vice direttore, gli impiegati, suddivisi in tecnici ed
amministrativi ( i tecnici erano leggermente più importanti ) e gli operai.
C'erano poi il Parroco, il comandante delle guardie di finanza, il medico, che
pur non facendo parte della scala gerarchica della miniera erano ovviamente
delle persone importanti e quindi assimilabili agli impiegati.
Che questa suddivisione esistesse era normale, come d'altra parte lo è oggi,
perché in definitiva essa scaturisce dalle differenti mansioni che uno ha, ma a
quei tempi e in un luogo chiuso come era la miniera, queste differenze
significavano l'applicazione di una sorta di apartheid: il circolo impiegati,
dove si andava per bere qualcosa nel bar interno, giocare al biliardo o a ping
pong, giocare a carte, chiacchierare con i colleghi, guardare la televisione (
quando arrivò il tempo della televisione ), era riservato agli impiegati e ai
loro familiari: gli operai non potevano entrarci e nemmeno i loro familiari, a
meno che non fossero accompagnati da un impiegato, cosa che peraltro succedeva
molto raramente. Una volta mi capitò di portare il figlio di un operaio per
giocare al biliardo e il giorno dopo Babbo venne richiamato dal Direttore
affinché una cosa del genere non si ripetesse!
Gli operai avevano il dopolavoro che essi utilizzavano per fare praticamente le
stesse cose, solo che lì gli impiegati potevano entrare senza che nessuno avesse
il diritto di protestare. Gli impiegati comunque raramente andavano lì perché
l'ambiente non era certo dei migliori. Rimane il fatto che gli impiegati avevano
il diritto di entrare al dopolavoro ma gli operai non avevano ugual diritto di
entrare al circolo.
Anche in "cantina", quando si mettevano uno sopra all'altro i libretti per
rispettare l'ordine di arrivo ( un po' come si fa alla USL di via Zanfarino con
le ricette ), c'erano due file di libretti: quella degli impiegati e quella
degli operai. Ma la cosa più incredibile ( oggi! ) é che anche in spiaggia
esisteva tale distinzione. All'inizio del periodo estivo, infatti, la Società
faceva piazzare sulla sabbia delle strutture in legno con la copertura di canne
per creare una zona di ombra abbastanza ampia dal momento che allora non
esistevano gli ombrelloni o comunque lì non c'erano. Naturalmente le strutture
erano due: una per gli impiegati ed una per gli operai, e, altrettanto
naturalmente, in quella degli impiegati non potevano stare gli operai mentre in
quella degli operai potevano andarci benissimo anche gli impiegati!!
Succedeva perciò che se io dovevo giocare con il figlio di un operaio, che
magari era un mio compagno di scuola, mi dovevo spostare nella struttura degli
operai: il contrario non era consentito. Talvolta poteva anche succedere, ma per
non creare problemi doveva essere un episodio casuale ed isolato.
Questa sorta di apartheid era peraltro "normale" in miniera e
tutti la vivevano, a me pare di ricordare, con tranquillità come se fosse una
cosa mandata da Dio e perciò accettata come qualcosa di ineluttabile.
Probabilmente però gli operai e i loro familiari soffrivano di questa
situazione, perché pochissimo tempo fa (siamo nel 2000) un mio compagno di
scuola delle elementari, in una discussione con Nietta per un problema relativo
alla festa di S. Barbara che si stava organizzando, ed evidentemente a seguito
della insistenza di Nietta per far valere la sua tesi, ebbe a ricordare a Nietta,
appunto, che erano finiti i tempi delle "baracche alla spiaggia..............."
Come a dire che non esistevano più i privilegi di una volta e che ora siamo
tutti uguali e perciò con uguali diritti. Evidentemente in questa persona, e
chissà in quante altre, bruciava ancora il ricordo della umiliazione che aveva
sentito da ragazzo per essere il figlio di un operaio.
Nel tempo comunque questa situazione si affievolì, pur con il mantenimento delle
regole di cui ho parlato che durarono fino alla chiusura della miniera avvenuta
nel 1963. Sempre più spesso succedeva infatti che qualche impiegato giovane si
sposasse con la figlia di un operaio, o che ragazzi compagni di scuola
continuassero a frequentarsi anche al di fuori della scuola stessa e che quindi
i rapporti tra le persone si basassero più sulle caratteristiche personali che
sul loro "status" di impiegati o operai. Naturalmente tutto ciò era anche frutto
dei tempi che cambiavano, della maggiore circolazione dei giornali, dell'avvento
della televisione e della maggior cultura anche delle famiglie di operai in
molte delle quali i figli andavano a studiare, soprattutto nei seminari, spinti
dai preti che speravano di far aumentare le vocazioni. Una delle cose che
ricordo, a riprova di questa diminuzione, nel tempo, degli effetti causati dalle
differenze sociali, é che negli ultimi anni di vita della miniera mi capitava
spesso di giocare a biliardo, al circolo, con il direttore della miniera ,
allora l'ing. Meloni, grandissima persona, il quale, quando perdeva, mi
chiedeva, scherzando, se a Cagliari io andassi per studiare o per imparare a
giocare a biliardo. Solo una decina di anni prima una cosa del genere sarebbe
stata impensabile.
Un altro motivo che servì in parte a mitigare gli effetti delle divisioni di
classe fu la costituzione della squadra di calcio che, sicuramente voluta dalla
Società perché ci fosse qualcosa di aggregante per la popolazione e soprattutto
qualcosa che potesse distogliere la gente, almeno per un po', dai problemi
sociali di quegli anni attraverso l'effetto "Bartali" (nel 1948 la sua vittoria
al Tour de France aveva evitato la guerra civile in Italia dopo l'attentato a
Togliatti). Era pian piano diventata una bella realtà perché la squadra era
fortissima, almeno in campo provinciale, scontrandosi e spesso vincendo con la
stessa Torres che mirava a raggiungere dei risultati consoni alla importanza di
capoluogo di provincia. Il motivo per cui la squadra fosse così forte era da
ricercare nel fatto che la Società, quando chiamava i giocatori più forti di
allora, dava loro anche il lavoro e quindi essi, oltre che giocare al calcio
avevano anche l'esistenza assicurata da un lavoro che ritengo fosse abbastanza
ben retribuito per quei tempi: alcuni di questi erano proprio giocatori della
Torres che naturalmente non potevano rifiutare una proposta così allettante.
Molti di essi rimasero poi all'Argentiera a lavorare anche dopo che la squadra
fu sciolta. I loro nomi sono ancora molto noti tra le persone di miniera e tra i
vecchi tifosi della Torres. Devo dire che talvolta la squadra viene citata da
"la Nuova" quando racconta di eventi sportivi di quegli anni e nomina qualcuno
dei giocatori famosi che avevano giocato nella squadra dell'Argentiera. Sig.
Gabbi e Franceschino Senes, portieri, sig. Ulivieri, terzino maledetto,
sig.Pischedda, un undici alla Gigi Riva, Bardanzellu, di Calangianus, un
centravanti alla Boninsegna, Mario Alias, mi pare centromediano, Placchi
anch'Egli credo un centrocampista( mi piacerebbe sapere se la sig.na Placchi
attuale giocatrice della Torres femminile Campione d'Italia e della Nazionale
sia per caso nipote del Placchi dell'Argentiera), Dongu, zio Piero Scudino, e
poi tanti altri di cui non ricordo più i nomi, erano i giocatori più noti, ma
naturalmente c'erano anche molti nomi dell'Argentiera, ossia di tanti che
vivevano già da prima in miniera e che si erano improvvisati giocatori ma con
risultati ottimi. Babbo era il segretario della squadra, mentre il presidente
era il direttore della miniera, l'ing. Zera. Claudio era la mascotte.
L'altro sport che per qualche anno venne praticato fu il pugilato. Chi lo
introdusse fu un pugile professionista di Portotorres, Mario Solinas, che era
stato campione Italiano, forse dei pesi medi. Venne a combattere anche Salvatore
Burruni, credo da dilettante, che doveva diventare poi campione del mondo dei
pesi mosca. La palestra era in piazza, una costruzione di legno, che fu
realizzata a fianco della chiesa provvisoria, pure in legno. I miei ricordi però
non sono vividi per cui é possibile che la palestra prese il posto della chiesa
quando fu realizzata quella definitiva, che é poi quella attuale, vicino alla
villa amministratori. Quando si organizzavano le riunioni anche il ring veniva
allestito in piazza.
Quegli anni della scuola elementare furono per me anni tutto sommato tranquilli
anche se ricordo qualche episodio spiacevole come l'infortunio a Francesco Sara,
che, mentre lavorava come elettricista, rimase fulminato dalla corrente
elettrica all'interno della cabina di trasformazione che alimentava la Laveria.
Questo ricordo é sempre rimasto in me molto vivo perché questa persona, molto
amica della nostra famiglia, era molto simpatica, benvoluta da tutti e perché
solo qualche giorno prima, in una scampagnata durata tutto il giorno alla "Banderetta",
ci aveva fatto divertire tanto con le sue battute.
Anche la malattia di Babbo si manifestò in tale periodo e nell'occasione le
famiglie che abitavano vicino a noi ci aiutarono a superare quel momento
difficile che poi si risolse, per fortuna, in maniera positiva.
Dal punto di vista strettamente scolastico, gli episodi importanti furono due:
in terza ed in quinta Elementare.
Il mio maestro di terza era un uomo abbastanza robusto, bravo di carattere ma
probabilmente non altrettanto come insegnante. Allora in terza si doveva
sostenere l'esame di fine anno per essere promossi alla quarta. Io ero molto
indietro un po' in tutte le materie ma soprattutto in matematica. Mamma cercava
di farmi fare degli esercizi ma assolutamente non riuscivo a fare progressi,
tanto che signorina Iole, una delle tre maestre che abitavano nella casa a
fianco, amica e futura comare di Mamma in quanto dopo qualche anno avrebbe
battezzato Piero, sentenziò che non ero abbastanza intelligente, non come Nietta,
comunque, e perciò le disse di mettersi l'animo in pace. Per fortuna(!) in un
periodo successivo il maestro si ammalò e fu sostituito dalla moglie, che non
era proprio maestra in quanto non aveva conseguito il diploma, ma che aveva
frequentato quasi tutti gli anni della magistrali. Non so perché non mandarono
un vero sostituto, forse non ne trovarono uno disponibile a venire
all'Argentiera per poco tempo o forse non avvisarono nemmeno il provveditorato
perché il periodo sarebbe stato breve. Il risultato fu, comunque, che mamma notò
un miglioramento notevole in me durante la sostituzione e quindi ne dedusse che
il problema non stava in me ma nell'insegnante. Decise allora di non presentarmi
all'esame e di farmi ripetere l'anno, per avere due risultati: farmi fare la
terza in grazia di Dio e lasciare quel maestro che altrimenti avrei avuto anche
in quarta e in quinta. Il maestro capì il motivo per cui non mi presentai
all'esame, si offese molto e non rivolse più la parola a Mamma. L'anno dopo
frequentai la terza a Portotorres con il maestro Castellaccio e a scuola non
ebbi più problemi nemmeno in quarta e quinta, nelle quali, una volta rientrato
all'Argentiera, ebbi il maestro Zanini, anche lui molto bravo. D'altra parte
anche come età ero a posto avendo iniziato a cinque anni.
La quinta fu importante perché mi doveva dare la preparazione per poter
frequentare la scuola media.
In quei tempi alla fine delle elementari, in quinta, appunto, bisognava
sostenere un esame finale, ma successivamente era necessario sostenere un altro
esame per poter essere ammessi a frequentare la scuola media, il famoso e temuto
"esame di ammissione". La mia preparazione fu curata da signorina Lina, sorella
di signorina Iole, che probabilmente aveva più pazienza o forse era più brava in
quel compito, e comunque non aveva dato giudizi, poi rivelatisi affrettati, su
di me!!! Superai brillantemente l'esame di ammissione e i tre anni successivi di
scuola media li feci a Portotorres; abitavo a casa di signora Paolina che Mamma
aveva conosciuto, in quanto abitava di fronte a noi, nell'anno in cui io avevo
frequentato la "seconda" terza elementare e Nietta la prima media. Signora
Paolina era una donna di grandissime qualità: non aveva studiato, credo che a
mala pena sapesse leggere e scrivere, ma aveva una grande bontà ed una saggezza
che non ho mai più ritrovato in nessun'altra persona. Aveva la dote rarissima di
non provare rancore per alcuno, era sempre pronta ad aiutare chi aveva bisogno,
a comprendere e perdonare anche le persone che talvolta le facevano del male o
non le davano una mano quando era lei ad avere bisogno .
Mamma fu aiutata molto da Signora Paolina: era in cinta di Piero e credo che
avesse avuto una gravidanza un po' difficile; inoltre ebbe difficoltà ad
inserirsi e vivere in un paese un po' scorbutico come Portotorres con persone
piene d'invidia e di pregiudizi, anche perché stava tutta la settimana da sola;
Babbo veniva soltanto al sabato e ripartiva poi la domenica sera. L'amicizia che
si creò fu davvero forte e tale rimase per sempre. Ancora oggi con i figli di
signora Paolina abbiamo un rapporto fraterno in quanto a casa sua, nel periodo
delle scuole medie, ero considerato da tutti un altro figlio.
Furono anni bellissimi anche perché diventando più grandi cominciavamo ad
apprezzare le persone che ci circondavano.
Uno di questi era Nonno Ruggiu. Era il capo dell'officina falegnami, quindi
falegname egli stesso, di grande cultura che poteva sostenere qualunque
discussione su qualunque argomento. Era molto apprezzato da tutti, gli piacevano
molto le opere liriche, le poesie sarde che comprendeva benissimo e per le quali
sbavava, tanto che Zietta e Zia Antonietta quando nelle feste andava a sentire i
poeti sardi, gli dicevano di portarsi il lavamani appunto per raccogliere la
bava.
Noi pendevamo dalle sue labbra perché ci raccontava un mucchio di storie per le
quali attingeva sia dalle fiabe che conosceva sia dalla sua vita che era stata
piena di avventure. Erano fantastici i racconti di quando era finanziere al
confine con la Svizzera, credo durante la prima guerra mondiale, dal momento che
era nato nel 1890, con storie di contrabbandieri, di briccolle, di paura nelle
notti fredde d'inverno, di guardia ai passi alpini, di spari nella notte, di un
asino ucciso a fucilate perché il rumore della sua andatura sembrava uguale ai
passi di un contrabbandiere che non si era fermato all'altolà.
Quando ci raccontava le sue storie noi non ci stancavamo mai di ascoltarlo e
quando era lui a stancarsi allora introduceva nel racconto il passaggio di un
gregge di pecore che però non finiva mai e perciò ci diceva che il racconto
sarebbe continuato in un altro giorno una volta passate tutte le pecore.
Era amante dei gialli e dei processi per omicidio che avevano scosso l'opinione
pubblica e che venivano raccontati sui giornali, così come delle arringhe degli
avvocati che di volta in volta criticava a seconda del suo schieramento tra gli
innocentisti o tra i colpevolisti.
Aveva naturalmente anche dei difetti che erano principalmente quello del bere e
quello di sperperare i soldi. Noi ovviamente non ci rendevamo conto di questi
difetti prima perché eravamo piccoli e poi, quando, diventati più grandi, Lui
aveva diminuito la sua aggressività, non beveva più tanto (noi non l'abbiamo mai
visto ubriaco) e non aveva più soldi da sperperare dopo che lo aveva fatto con
tutte le proprietà di Nonna Ruggiu.
Dei suoi amici dell'Argentiera citava spesso il sig. Serpillo che doveva essere
un uomo in gamba, visto che era amico suo. Questi é risultato essere poi il
nonno del mio insegnante d'inglese all'università, il quale da piccolo veniva
all'Argentiera appunto a trovare suo nonno.
Riguardo il suo lavoro andava fiero del periodo in cui aveva lavorato per il più
famoso costruttore di mobili di Sassari che era Clemente, perché lavorare da
Clemente significava essere dei bravissimi falegnami; tra i tanti racconti di
quel periodo mi ricordo quello relativo alla costruzione di una culla che la
città di Sassari aveva donato credo al Re D'Italia per la nascita del figlio:
era un capolavoro!
Andava anche fiero di una invenzione che aveva fatto in miniera quando era
riuscito a realizzare una applicazione per la pialla che consentisse di
costruire dei settori circolari di legno che dovevano avere delle scanalature
lungo le quali, una volta ricoperti di una tela robusta doveva passare aria
compressa . Ciò avvenne credo durante la guerra in quanto non fu possibile
approvvigionarsi di tali settori dalle ditte continentali che prima le
fornivano.
Credo che in quella occasione la Società gli avesse dato un premio speciale per
la bravura dimostrata .
Nel periodo delle scuole medie ci trasferimmo nella "casa di giù", ossia in
un'abitazione più grande, prima occupata dalla famiglia di un impiegato che era
stato licenziato. Il Direttore ci aveva dato questa casa in quanto nel frattempo
i figli eravamo diventati cinque e la casa di "cantina" era diventata troppo
piccola. Eravamo praticamente in piazza e questo significava anche una maggiore
considerazione da parte degli altri. Inoltre avevamo un po' tutto a portata di
mano, ad eccezione della cantina che risultava ora un po' lontana.
Noi stavamo diventando grandi e tante cose incominciavano a cambiare. Quasi
tutti gli amici eravamo fuori a studiare e quindi ci vedevamo di meno; con
alcuni ciò accadeva praticamente solo in estate. Io studiavo a Portotorres e
rientravo il fine settimana utilizzando un pullman che partiva da Sorso, passava
a Portotorres e proseguiva per Alghero percorrendo la strada dei due mari.
All'incrocio di Juanne Abbas c'era la coincidenza con il pullman per
l'Argentiera, proveniente da Sassari. Il lunedì mattina invece non c'era tale
possibilità ed allora il più delle volte Babbo mi procurava un passaggio sui
camion della società che trasportavano il minerale al porto di Portotorres per
l'imbarco sulle navi che dovevano poi trasferirlo alle fonderie del continente.
Già perché in quegli anni la tecnologia avanzava e quindi cambiavano sia i
metodi di estrazione del minerale, sia quelli relativi al suo trasporto una
volta pronto.
I minerali presenti nel sottosuolo dell'Argentiera erano piombo, zinco e galena
argentifera.
Esistevano due pozzi principali: Pozzo Podestà e pozzo Alda. Il primo era vicino
alla cantina, mentre il secondo era a La Plata.
Il Pozzo era proprio un pozzo che scendeva fino a profondità di centinaia di
metri dal quale si dipartivano, a vari livelli, diverse gallerie nelle quali si
effettuava l'estrazione del minerale. Anche molte di queste gallerie erano
collegate tra di loro, pur se a differenti livelli, attraverso altri pozzi di
diametro molto più piccolo di quello principale che si chiamavano infatti
fornelli. Scorrevano lungo il pozzo principale due montacarichi( penso fossero
due anche se io ne vedevo uno solo, in modo che uno facesse da contrappeso
all'altro) che servivano sia per il trasporto del personale, sia per il
trasporto dei vagoncini che gli operai riempivano di minerale nelle gallerie. La
miniera rimaneva in attività 24 ore su 24 ad eccezione della domenica che era il
giorno di riposo per tutti. C'erano perciò tre turni di otto ore ciascuno che
iniziavano rispettivamente alle 00, alle 8 e alle 16 di ogni giorno; il cambio
del turno si chiamava "sciolta".
Una volta in superficie, i vagoncini pieni di minerale ancora in forma di pietre
venivano spinti o tirati dai muli, fino alla Laveria.
La Laveria era per me una cosa misteriosa e per questo affascinante: era una
specie di laboratorio che trasformava ciò che era stato estratto dal sottosuolo.
Quando arrivavano alla Laveria, i vagoncini venivano ribaltati e tutto il
minerale scendeva in alcune tramogge a forma di tronco di piramide, con la punta
in giù, collegate ad un primo frantoio dove veniva iniziata la fase di
frantumazione delle pietre. Questo primo frantoio credo fosse a ganasce. mentre
il secondo era a sfere. Non ricordo se ci fosse un terzo frantoio, ma il
risultato finale della frantumazione era una polvere finissima, composta dai tre
minerali e da materiale sterile, che attraverso dei nastri trasportatori, veniva
scaricata nelle vasche di flottazione, ossia in vasche piene di acqua e altre
sostanze. Veniva prodotta una schiuma che rimaneva in superficie e veniva
raschiata da palette rotanti che la spingevano su altri nastri trasportatori.
nel percorso su tali nastri la schiuma si asciugava e rimaneva il minerale. Da
grande capii che in qualche modo veniva sfruttato il diverso peso specifico dei
tre tipi di minerale perché essi potessero essere separati. Esistevano infatti
tre serie di vasche, una per ogni tipo di minerale e tre nastri trasportatori
diversi che convergevano tutti nella parte bassa della Laveria dove venivano
utilizzati quei settori circolari che costruiva Nonno. Il minerale ormai
lavorato veniva raccolto con dei vagoncini e immagazzinato all'interno di
appositi spazi in attesa di essere poi trasportato in continente, mentre lo
sterile veniva trascinato in mare con l'acqua di lavaggio del minerale stesso.
Mi pare che l'aspetto più evidente dell'avanzata della tecnologia fosse proprio
il diverso metodo di trasporto del minerale in continente. Fino al termine della
guerra e ancora qualche anno dopo esso veniva trasportato con i vagoncini fino
al ponte costruito alla spiaggia e sistemato su barconi che lo portavano fino a
dei bastimenti che si fermavano un po' al largo, nella baia. Non entravano mai
all'interno della baia perché se il mare si fosse improvvisamente agitato
sarebbero stati sbattuti sugli scogli come dei fuscelli, cosa che alcune volte
era successa. La cosa stupefacente, almeno per me, era però un grandissimo
carrello che veniva fatto scorrere su rotaie e posizionato sul ponte. Era su
questo che scorrevano i vagoncini pieni di minerale che ad un certo punto
venivano ribaltati ed il minerale finiva nei barconi. Era formato da due piani e
quello superiore era allo stesso livello di due archi di circonferenza del ponte
contrapposti nella parte concava su ognuno dei quali c'erano le rotaie più
piccole sulle quali scorrevano i vagoncini; quello di destra(guardando il mare)
era per il percorso di andata dei vagoni pieni e quello di sinistra per il
ritorno dei vagoni vuoti. Lo scaricamento del minerale nei barconi avveniva
attraverso delle tramogge ruotanti anch'esse montate sul carrello.
Dopo questo periodo incominciarono a vedersi dei camion e quindi il minerale
veniva prima caricato sui camion che lo trasportavano fino al porto di
Portotorres, scaricato sulla banchina e poi da lì preso e stivato con le gru
nelle navi.
Questo nuovo metodo era più semplice ed economico ma sicuramente meno curioso e,
se vogliamo, meno romantico.
La "casa di giù" era proprio di fronte alla Laveria. Credo che dalle finestre di
casa e le pareti della Laveria non ci fossero più di venti metri. E'
inimmaginabile il rumore che c'era con i frantoi e con tutti i motori che
funzionavano giorno e notte. Noi però quasi non ci rendevamo conto di questo,
anzi paradossalmente avevamo un senso di fastidio alla domenica quando gli
impianti erano fermi. Senza il rumore ci sembrava di essere in una situazione
irreale!!
Anche da un punto di vista pratico questa casa era migliore dell'altra perché
risultava al centro della miniera; la vita sociale si svolgeva in piazza, sia
nelle sere dei giorni feriali, sia alla domenica quando dopo la Messa, la
mattina, tutti passeggiavano con i vestiti del giorno di festa. Il circolo era
lì a portata di mano e perciò noi stavamo quasi sempre lì. C'era il bigliardo,
il ping pong, una sala con dei tavolini dove si giocava a carte e dove più tardi
fu installato il televisore, e naturalmente il bar . L'atmosfera era sempre
molto bella, c'era sempre tanta allegria: i Grandi commentavano i fatti del
giorno sia locali che nazionali o regionali, ma spesso anche i risultati di
memorabili partite a bigliardo (all'italiana o a boccette) o a carte (di solito
scopone scientifico). La posta in palio per queste partite era di solito un
caffè o una bibita o più spesso un cioccolatino che il vincitore portava alla
moglie o ai figli. Una volta Babbo, dopo aver vinto una partita a boccette,
diede il cioccolatino che aveva vinto a sig. Col perché lo portasse a Fufolina.
Un nostro amico maestro elementare di Portotorres (nipote di signora Paolina)
che insegnava all'Argentiera, presente alla partita, si meravigliò che Babbo
donasse il cioccolatino ad un cane! Solo più tardi venne a sapere che Fufolina
era la figlia di sig. Col!!
In estate il tavolo da ping pong veniva portato all'esterno in un giardinetto
prospiciente il circolo e lì le partite erano memorabili. Qualche volta si
tentava di organizzare qualche ballo ma la cosa suscitava sempre qualche
perplessità da parte dei Grandi.
Memorabili erano anche le feste di capodanno che venivano organizzate al
circolo; naturalmente la prima nostra partecipazione a tale festa significava il
nostro ingresso in società e quindi il riconoscimento ufficiale del fatto che
non eravamo più bambini.
Ricordo quando portarono il primo televisore quanta emozione suscitò in tutti!
per le trasmissioni più importanti ci riunivamo nella sala e i commenti erano
veramente i più coloriti che si potessero sentire. Diciamo che spesso dire che
vedevamo la televisione era un eufemismo perché in realtà si vedeva pochissimo
in quanto non c'erano ripetitori vicini alla miniera e perciò spesso vedevamo
delle ombre, ma già quella era una conquista. Paradossalmente si vedeva meglio
quando c'era brutto tempo: probabilmente perché in quelle condizioni l'aria era
meno ionizzata e il segnale, seppure debole, poteva arrivare senza distorsioni.
Ci avvicinavamo agli anni sessanta, la musica che irrompeva era il rock di Elvis
Presley o di Little Richard, ma anche quello di Pat Boone che con il suo "Love
Letters in the Sand" ci faceva morire di malinconia. Poi ancora Paul Anka con
"Diana" e Neil Sedaka con "Oh Carol". Io studiavo a Cagliari, all'Industriale, e
rientravo a casa solo a Natale, a Pasqua, e ovviamente in estate, alla fine
delle scuole.
L'estate rappresentava il periodo più bello in assoluto. Naturalmente la vita
era spensierata dato che, da ragazzi, le preoccupazioni erano tutte dei nostri
genitori. Farci studiare significava per Babbo e Mamma grandi sacrifici
economici, perché io stavo a Cagliari a pensione (per un anno anche Claudio che
poi si ammalò alle gambe e perciò rimase a casa), e Nietta era a La Maddalena in
collegio. Lo stipendio era solo quello di Babbo, ma con la testardaggine di
Mamma e facendo veramente i salti mortali, erano riusciti a fare in modo che
potessimo studiare. Noi sapevamo questo ma Loro non lo facevano pesare mai per
cui la vita a casa era sempre molto serena.
La mattina eravamo sempre al mare con la spiaggia a nostra disposizione. Allora
non veniva nessuno da fuori perché coloro che possedevano l'automobile erano
pochissimi e per gli altri era più pratico andare ad Alghero o a Platamona.
ovviamente non ci sembrava vero avere il mare tutto per noi ed inoltre vedevamo
quelli di fuori come degli intrusi che volessero portarci via qualcosa di nostra
proprietà. Ancora oggi d'altra parte quando vado all'Argentiera e vedo tanta
gente "di fuori" che sembra padrona del posto mi infastidisco un po',
soprattutto quando li sento parlare dei posti tipici come se fosse qualcosa che
appartiene a loro, mentre ciò assolutamente non è vero. Talvolta mi è capitato
di incontrare qualche conoscente che vedendomi all'Argentiera mi ha chiesto:
"Anche tu qui?"!!!!!!!
La compagnia era molto bella ed eravamo quasi sempre gli stessi; da un anno
all'altro potevano cambiare degli amici che venivano a trovare qualcuno di noi
oppure i figli del direttore della miniera la quale era la figura che, rispetto
agli altri, cambiava più spesso. Così per tanti anni ci furono Gianni e Claudia
Boschetti e poi venne Barbara Balbusso.
C'erano poi gli Ottelli che venivano solo d'estate perché abitavano ad Iglesias
anche se il loro padre lavorava in miniera come caposervizio "esterno" e
probabilmente in inverno rimaneva da solo o forse con la moglie e la figlia
Annamaria. Erano quelli che portavano sempre le novità e ci sembravano strani
perché diversi da noi come mentalità ma soprattutto come parlata che era
logicamente campidanese e che ci faceva ridere con il "là, tocca!"
Li chiamavamo "gli Ottelli" perchè erano tanti fratelli, anche se poi quelli che
stavano con noi erano tre: Cicci, Luciano e Sergio. Della cordata campidanese
faceva parte anche un altro Luciano, il nipote di sig. Villaminar, che era della
mia stessa età e che era molto mio amico.
L'anno della influenza denominata "asiatica" Luciano(Villaminar) si ammalò nel
mese di settembre e mamma mi mandò da lui per fargli compagnia e per far sì che
io venissi contagiato e potessi avere l'influenza stando a casa. Le scuole
iniziavano il primo di ottobre e forse c'era tutto il tempo; invece io non mi
ammalai finché fui a casa ma appena arrivai a Cagliari.
La compagnia che si riuniva al completo in estate era composta dagli indigeni e
dagli "ospiti" ma naturalizzati dell'Argentiera come gli Ottelli o i figli del
direttore.
Gli indigeni più o meno della mia età eravamo diversi: oltre me c'erano
Antonello e Giambruno Peru, Ninni Col, Claudio (nostro), Gianfranco e Tonio
Madarese, Franco Zanin, Franco Tosi, Tonio Zuddas, Tonio Mura, Andrea Porcu,
Ninuccio Ceraulo, Salvatore Muroni, Bruno Uldank, Francesco Mura.
Le ragazze indigene erano: Nietta, Renata e Riccarda Seno, Rosetta Scanu, Maria
Carmela Mannu, Fufolina e Marta Col, Gisella Serra, Giulia Ceraulo di giù,
Giulia e Rosalba Ceraulo di su, Mariuccia Mura, Anna Zuddas.
Sia tra i maschi che tra le femmine alcuni erano un po' più grandi oppure
lavoravano già e quindi stavano di meno con noi nei giorni feriali mentre di
domenica ci ritrovavamo tutti, inizialmente in chiesa per la Messa e poi al
mare.
La Messa era sempre un momento importante: ognuno faceva sfoggio
dell'abbigliamento più elegante, bisognava essere lì in orario altrimenti il
prete si adirava. Mi ricordo che le donne non potevano entrare in chiesa a capo
scoperto e naturalmente dovevano vestire in modo non scandaloso oltre che avere
un portamento semplice e modesto. Tutti guardavano tutti e quindi bisognava
evitare ci fossero motivi di pettegolezzo.
Alla fine della messa, in inverno andavamo in piazza e al circolo, mentre in
estate andavamo in spiaggia.
Moltissimi ricordi di avvenimenti più o meno importanti sono legati alla chiesa
che, essendo l'unico punto comune a tutti e nel quale eravamo tutti uguali ( per
fortuna non c'erano i banchi per gli impiegati distinti da quelli per gli
operai!), diventava spesso riferimento temporale e spaziale.
La chiesa, all'Argentiera, non è stata sempre quella attuale. La prima di cui
abbia sentito parlare era nella parte alta di Calaonano, la seconda era invece
in piazza ma era una costruzione in legno, provvisoria, in attesa che venisse
costruita quella definitiva ed attuale sulla collina dalla quale si vede tutta
la baia.
Non so bene perché decisero di abbandonare la chiesa di Calaonano: ritengo che
la ragione potesse risiedere nel fatto che era troppo lontana dal centro e
quindi era faticoso raggiungerla.
Certo parlare della chiesa significa inevitabilmente parlare di Don Meloni che,
casualmente, era stato sia in quella di Calaonano sia in quella attuale.
Don Meloni, Pietro Meloni, era un personaggio straordinario soprattutto per il
fatto che era il classico scienziato pazzo. Già negli anni quaranta, quando
appunto era nella chiesa di Calaonano, faceva parlare di sé per le sue
stravaganze: girava sempre in moto, velocissimo, in pantaloni e con gli
occhialoni da motociclista come si conveniva allora. Aveva, all'esterno della
chiesa, un orticello recintato nel quale coltivava degli ortaggi che piacevano
molto anche ad alcune capre che pascolavano da quelle parti e che in qualche
modo riuscivano a saltare la recinzione e a mangiarsi la verdura. Don Meloni
avvisò il proprietario delle capre affinché stesse attento e tenesse le bestie
lontano dall'orto. Ciò non avvenne ed allora don Meloni minacciò di sparare alla
capra che avesse trovato all'interno dell'orto. Cosa che fece puntualmente un
giorno in cui per l'ennesima volta trovò appunto una capra che gli stava
mangiando gli ortaggi.
Già questo esempio serve a capire come Egli non fosse il classico uomo di
chiesa! Si diceva, d'altra parte, che i genitori lo avessero costretto a farsi
prete perché lui non voleva. A quei tempi per le famiglie era un orgoglio avere
un figlio prete e spesso accadeva appunto che i figli venissero costretti a
seguire la carriera ecclesiastica anche senza la vocazione.
Era un uomo di scienza, soprattutto astronomo, ma che amava la musica, suonava
abbastanza bene il violoncello, e non disdegnava interessarsi di elettronica
come nella costruzione di un televisore probabilmente attraverso corsi tipo
Radio Elettra.
Per quanto riguarda l'Astronomia, si era costruito un osservatorio tutto da sé
che aveva prima a Sassari e che poi trasferì all'Argentiera quando venne per la
seconda volta; c'era stato un intervallo di tempo nel quale il vescovo lo tenne
a Sassari, mentre da noi arrivò Padre Benvenuto, un frate di Santa Maria,
classico uomo di chiesa, un po' ipocrita, un po' falso e viscido abbastanza da
essere poco simpatico ai più.
Don Meloni invece era un uomo pratico che difficilmente sottostava a dei
compromessi e che ci metteva poco a mandare a quel paese chiunque, Vescovo
compreso, il quale infatti, non appena poté, lo rimandò all'Argentiera, lontano
da Sassari. Don Meloni accettò, credo di buon grado, perché così non sarebbe
stato costretto ad effettuare tutte le cerimonie in pompa magna come avviene in
città, come quelle di Pasqua o Corpus Domini o L'Ascensione, con tutte le
processioni e i fastidi che ne derivano. Non so quanto Don Meloni fosse
credente, anche se era prete, ma certamente riteneva che Dio non fosse tutto
l'insieme di vizi e virtù che gli uomini, a loro somiglianza, Gli attribuivano.
Sicuramente lo considerava un Essere pratico come era lui. Una volta nella
predica che fece durante la Messa per la Festa di Santa Barbara, patrona dei
minatori, disse che Santa Barbara aveva disubbidito al padre e che quindi il
padre aveva fatto bene a tagliarle la testa! Probabilmente fu nella stessa
occasione in cui sgridò gli operai che erano tutti in chiesa per venerare la
Santa Patrona, dicendo loro che bisognava andare in chiesa tutte le domeniche e
non soltanto in quella circostanza e aggiungendo che in definitiva Santa Barbara
era la serva di Dio e quindi era come se gli operai, andando a casa del
Direttore, ossequiassero la donna di servizio senza degnare di uno sguardo il
Direttore stesso che invece era la persona più importante!
Un'altra volta, in occasione della benedizione delle case, dopo Pasqua, venne a
casa di nonna Ruggiu per benedire appunto la casa. Entrò e si fermò
nell'ingresso, lanciando l'acqua benedetta da quel punto. Alla richiesta di
Nonna di entrare anche nelle altre stanze, Lui rispose di non preoccuparsi
perché l'Acqua Santa era come le cimici: bastava darla in una stanza e si
sarebbe sparsa per tutta la casa!
Tante volte nelle afose nottate estive andavamo a trovarlo e Lui era sempre
molto contento: ci offriva da bere e poi ci faceva vedere le stelle con il
telescopio oppure si metteva a suonare il violoncello.
Il disordine che regnava nella sagrestia era qualcosa di indescrivibile, cicche
dappertutto, una tazzina per il caffè che non lavava mai, tanto lì " beveva solo
lui ", ma che ormai conteneva pochissimo caffè dato che il fondo era sempre meno
profondo, un televisore in costruzione, il violoncello, la carabina ad aria
compressa: si faceva fatica a trovare un posto dove sedersi!
Era però una persona straordinaria: chiacchierare con lui era sempre
piacevolissimo e si imparava sempre qualcosa dalle visite che gli facevamo.
Noi eravamo molto legati a Don Meloni: aveva celebrato il matrimonio di Babbo e
Mamma nel 1939 usando non so bene quale artifizio in quanto Mamma era minorenne
e nonno Ruggiu non voleva che si sposasse, per cui c'era tra di loro tanta
confidenza sicuramente originata dalla complicità che quell'avvenimento aveva
comportato.
Credo di non esagerare nell'affermare che Don Meloni era un grandissimo uomo.
All'uscita dalla Messa, in estate, passavamo un attimo a casa a cambiarci e poi
subito in spiaggia.
Le spiagge erano due, ma l'unica praticabile e nella quale stavamo era quella
alla destra del ponte, guardando il mare, perché l'altra era ricoperta da un
fango grigio, portato dalle acque di scarico della Laveria e naturalmente non
era possibile nemmeno camminarci. Per dire la verità talvolta qualcuno di noi
andava proprio alla spiaggia del minerale per il gusto di coprirsi completamente
di fango e poi ripulirsi in acqua nell'altra spiaggia.
La domenica ovviamente c'erano anche le famiglie che non potevano venire nei
giorni feriali e una delle cose più buffe da vedere erano le persone che si
facevano il bagno pur non sapendo nuotare e che cercavano di imparare; erano
soprattutto le mogli degli impiegati continentali che si munivano di ciambelle
salvagente come se fossero dei bambini e perciò se ne vedevano di tutti i
colori, perché da un punto di vista estetico non offrivano uno spettacolo
propriamente esaltante con i loro sederi all'aria per cercare di stare a galla,
tra risate, grida di paura o di richiamo verso i loro mariti quando riuscivano a
fare qualche bracciata. Così ogni domenica c'erano i vari show della signora
Sella, della signora Zannoni, della signora Nascimbene e di tante altre che
vedevano il mare come una cosa curiosa, lontana dalla loro cultura, dal momento
che venivano dal nord Italia e quindi più abituate alla montagna, e che
sicuramente avevano visto il mare per la prima volta quando erano arrivate
all'Argentiera.
L'acqua era molto alta: già a qualche metro dalla riva non si toccava più e ad
una distanza di qualche decina di metri la profondità era già rilevante.
All'uscita della baia l'acqua era profonda un'ottantina di metri. Non ricordo
però di persone annegate, all'Argentiera, probabilmente perché, ho sempre
pensato, l'acqua subito alta incuteva paura e quindi tutti erano particolarmente
prudenti, soprattutto le mamme che controllavano a vista i propri figli mentre
facevano il bagno e non si fidavano nemmeno per un momento.
Il divertimento in spiaggia era sempre grandissimo sia quando facevamo il bagno
sia quando stazionavamo sulla spiaggia tutti assieme raccontando un mucchio di
storie. Tonio Mura portava sempre qualche camera d'aria di copertone di camion,
naturalmente gonfia, ci si metteva dentro e si faceva rotolare fino all'acqua.
Ogni tanto si trovava qualche tronco di legno e allora si faceva a gara a chi
rimaneva più tempo sopra. C'erano poi i tuffi dal ponte dove spesso andavamo
tutti e perciò era un continuo tuffarsi e risalire e poi rituffarsi senza sosta
in un turbinio di acqua; talvolta qualcuno si tuffava in testa ad un altro che
ancora non si era spostato ma per fortuna non succedeva mai niente di grave.
Un anno c'era stata l'invasione delle meduse: era la prima volta che ciò
accadeva, almeno per me. La superficie del mare era letteralmente ricoperta di
meduse! Dalla riva se ne prendevano a decine e si infilavano in un pezzo di filo
di ferro per formare delle collane. Erano urticanti in maniera incredibile e
praticamente tutti noi eravamo rimasti bruciati, chi più chi meno. Quello che
aveva avuto problemi grossi era stato Giampaolo Gaia perché mentre faceva il
bagno una medusa gli si era attaccata al collo sotto la nuca e gli aveva
provocato una bruciatura molto estesa e molto dolorosa: credo che lo abbiano
portato all'ospedale per questo.
L'altro divertimento era fare il bagno con il mare agitato, cosa che avveniva
qualunque grado avesse la burrasca o qualunque altezza raggiungessero le onde.
Bisognava calcolare il momento in cui entrare in acqua, tra l'infrangersi di
un'onda e l'arrivo della successiva, per poi nuotare verso il largo e seguire il
movimento delle onde cosicché ti ritrovavi in alto sulla cresta di un'onda e poi
giù di colpo nel vuoto tra un'onda e l'altra. Il momento più difficile era però
uscire dall'acqua perché bisognava farsi trasportare dall'onda verso la riva,
aspettare che l'onda si infrangesse e poi uscire prima dell'arrivo dell'altra.
Una volta calcolai male il tempo e mi ritrovai nel mezzo dell'onda quando questa
si arrotolava su se stessa. Anch'io girai assieme all'onda, venni sbattuto
violentemente sul fondo e trascinato via senza che potessi fare alcunché per
fermarmi, come fossi un fuscello di paglia. Non mi feci alcuna ferita per
fortuna ma lo spavento fu veramente grande e da allora imparai a fare meglio i
conti.
In generale la vita scorreva abbastanza serena seppure forse un po' monotona;
qualche avvenimento importante però si verificò nel corso degli anni, al di là
degli infortuni mortali o comunque molto gravi che rappresentavano sempre
qualcosa d'importante.
Il primo di cui ricordo qualcosa, seppure in maniera vaga, fu un attentato fatto
a Padre Benvenuto, il parroco di allora, con una bomba posta all'esterno della
sagrestia da un comunista. Erano gli anni cinquanta, credo, e le battaglie
politiche tra i comunisti e i democristiani erano ancora all'ordine del giorno.
I comunisti, d'altra parte, erano stati scomunicati in quanto atei e, se non
ricordo male, la bomba era stata messa da un comunista al quale era stato negato
il matrimonio in chiesa; avere l'esplosivo, in miniera non era certo difficile,
anche se i controlli severissimi da parte dei Carabinieri o della Guardia di
Finanza limitavano un po' i furti; questo materiale esplosivo peraltro veniva
usato anche per pescare. C'erano infatti coloro che dalla miniera riuscivano a
trafugarne un po' e, per poter avere una discreta quantità di pesci, in maniera
veloce e con poca fatica, gettavano in mare una bomba da essi preparata che,
esplodendo, provocava un violento spostamento d'aria e quindi l'uccisione di
molti pesci che venivano a galla ed erano recuperati dai pescatori bombaroli.
Naturalmente questo particolare tipo di pesca era proibito, non solo perché
veniva danneggiato l'ambiente marino spesso in maniera irreparabile, ma anche
perché questa pratica era estremamente pericolosa per coloro che preparavano la
bomba; spesso infatti succedeva che l'esplosivo saltasse in aria quando ancora
era nelle mani del "pescatore". In giro infatti, all'Argentiera, si vedeva più
di una persona senza un braccio o una mano, proprio a causa di tali incidenti;
credo che sia morto anche qualcuno, dilaniato dalla bomba che stava preparando.
L'altro avvenimento che aveva portato l'Argentiera agli onori della cronaca fu
l'assassinio di una bambina di dieci anni da parte di un ragazzo di diciassette
anni, figlio del barbiere. L'episodio si sviluppò secondo uno schema direi
classico, nel senso che tante volte si sentono episodi di cronaca nera che hanno
uno svolgimento molto simile a questo.
La bambina era improvvisamente sparita: apparteneva ad una famiglia di basso
rango con rapporti strani tra moglie, marito, amante, parenti dell'amante.
Insomma una famiglia nella quale certamente la bambina non era seguita
attentamente e anzi spesso veniva abbandonata a se stessa.
Quando inizialmente la bambina non si trovava, i genitori non si preoccuparono
moltissimo, anche perché all'Argentiera non erano mai successi episodi di
delinquenza, ritenendo che la figlia si fosse allontanata giocando con altri
bambini. Quando calò il buio però si preoccuparono ed avvisarono il Brigadiere
Sella, comandante della brigata delle Guardie di Finanza che operavano anche
come controllori dell'ordine pubblico.
Tutti cominciarono allora a cercare la bambina per tutta la sera e credo anche
per parte della notte. Si guardò in mare, sulla spiaggia, pensando che la
bambina potesse essersi recata in spiaggia e poi magari essere annegata, ma
anche nelle colline attorno alla piazza principale, al margine della quale
abitava la famiglia della piccola.
Le ricerche furono però del tutto infruttuose: della bambina non c'era traccia.
A questo punto credo che siano stati interessati i Carabinieri della Tenenza di
Sassari che vennero il giorno dopo con i cani poliziotto.
quella sera però avvenne anche un altro fatto che fece pensare alla presenza di
un qualche maniaco e delinquente venuto chissà da dove: il barbiere si recò dal
brigadiere Sella per denunciare il fatto che il figlio, appunto la sera dopo
l'imbrunire, era stato avvicinato da un brutto ceffo che l'aveva minacciato con
il fucile, lo aveva fatto spogliare, lasciandolo in mutande, e poi si era
dileguato nel buio. Il ragazzo era ritornato a casa molto scosso e aveva
raccontato tutto al padre. La presenza di questo bandito venne automaticamente
collegata alla sparizione della bambina e perciò il brigadiere Sella e il medico
dott. Gaia si recarono a casa del ragazzo per avere maggiori informazioni. Il
racconto però era subito sembrato troppo preciso e pieno di particolari che dato
il buio e lo spavento presumibile il ragazzo non avrebbe dovuto ricordare;
inoltre il dott. Gaia che lo aveva visitato pensò che in realtà il ragazzo non
fosse terrorizzato come ci si sarebbe aspettato in una situazione del genere.
Il brigadiere Sella decise allora di portare il ragazzo nella cella della
caserma e di interrogarlo a dovere. Secondo i maligni usò le maniere forti,
fatto sta che il ragazzo confessò di avere ucciso la bambina ma non volle dire
né dove fosse il corpo né dove avesse nascosto i vestiti che aveva detto
essergli stati tolti dal brutto ceffo; si pensò che forse aveva confessato per
paura di prendere altre botte.
L'indomani i carabinieri sguinzagliarono i cani poliziotto dopo aver fatto loro
annusare degli indumenti del ragazzo ed essi incominciarono a percorrere varie
strade dove presumibilmente egli era passato.
La mattina, domenica, mentre eravamo nel piazzale della chiesa si sentirono
delle urla provenire dalla piazza: qualcuno gridava che era stata trovata la
bambina. In effetti di lì a poco le forze dell'ordine si recarono in un anfratto
vicino alla falegnameria, a due passi dalla piazza e trovarono il corpo senza
vita della piccola.
Lo sgomento fu grande e tutti ci chiedemmo come fosse stato possibile che un
fatto così grave fosse accaduto proprio lì, praticamente sotto gli occhi di
tutti, senza che nessuno si fosse accorto di niente.
Intanto i cani poliziotto continuavano a percorrere gli itinerari che aveva
seguito l'assassino, fino a quando trovarono gli indumenti che erano stati
nascosti tra le rocce in mare vicino al ponte, dalla parte della spiaggia del
minerale. A quel punto fu evidente a tutti che l'assassino, dopo aver ucciso la
bambina, si recò al mare, si spogliò e tornò a casa all'imbrunire raccontando la
storia della aggressione subita.
In realtà con i ricordi di tante persone poi si riuscì a ricostruire tutti i
movimenti del ragazzo dopo l'omicidio: egli ritornò alla barberia dove fece la
barba a Franco Tinti che se la prese con lui perché gli tremava la mano e
appariva nervoso, dopo andò al dopolavoro e si mise a giocare a biliardo ed
infine, all'imbrunire, andò via e, presumibilmente, si recò al mare per
spogliarsi ed inscenare la finta aggressione.
Rimanemmo molto scossi per tanti giorni ma poi piano piano la vita ritornò a
scorrere normalmente.
Un altro avvenimento che scosse le coscienze delle "persone per bene" fu
l'arrivo di un'amica di Renata, Marika, che, eravamo nell'estate di un anno fine
anni 50 o inizio anni 60, non ricordo bene, quando andava al mare indossava,
come costume da bagno, il bikini! Apriti cielo! Le signore, mogli
degl'impiegati, incominciarono a gridare allo scandalo e anche tra gli uomini,
quelli più puritani (ed ipocriti) protestarono soprattutto perché in spiaggia
c'erano i bambini che non potevano assistere ad uno spettacolo così osceno; e
giù tutta la serie classica di frasi come: "dove andremo a finire", "non esiste
più il pudore" , "che tempi", "i giovani di oggi non hanno un minimo di
rispetto" e così via. Al circolo non si parlava d'altro e alcune signore, data
la posizione gerarchica dei loro mariti, fecero un'interrogazione al Direttore
per chiedere che intervenisse per porre fine a quella situazione insostenibile.
Anche la Guardia di Finanza fu interessata al problema ma poi non successe nulla
e piano piano la cosa perse d'importanza anche perché Marika dopo un po' andò
via. In realtà Marika dava fastidio non solo per il bikini ma anche per il suo
atteggiamento un po' spavaldo e spregiudicato che non era quello accettato
all'Argentiera dove ancora le ragazze erano morigerate e rispettose del pudore e
dei valori di allora oltre che timorate di Dio.
L'ultimo avvenimento particolare che io ricordo avvenne diversi anni più tardi
quando la figlia di un impiegato di alto rango si mise ad amoreggiare con un
finanziere di mare. La vicenda fece scalpore non solo perché i due non facevano
molto per nascondersi, cosa già di per sé disdicevole, ma soprattutto perché la
differenza di classe sociale tra i due era notevole: lei figlia di un dirigente
della miniera, studentessa universitaria(?) e comunque prossima laureata e lui
un ragazzotto, finanziere semplice, sì belloccio ma senza arte né parte.
Sembrava evidente a tutti che doveva trattarsi solo di pura attrazione sessuale
che allora non poteva essere tollerata. Effettivamente la ragazza aveva un
atteggiamento, un portamento e caratteristiche tali da far pensare al sesso non
appena la si guardava, per cui la relazione poteva avere senso solo come un
qualcosa di morboso e quindi scandalosa, dal momento che altrimenti quei due non
avrebbero avuto alcuna possibilità di poter instaurare una relazione per via
della loro differenza di classe sociale. La situazione rischiava di diventare
ingovernabile: la madre della ragazza intervenne affinché il finanziere venisse
trasferito istantaneamente soprattutto dopo che i due, così dissero le persone
bene informate, avevano osato baciarsi alla luce del sole sotto la scalinata che
porta alla chiesa! Scandalo nello scandalo. Non so poi cosa successe, ma la
vicenda, anche questa, come é logico, si sgonfiò e non se ne parlò più. Il
finanziere probabilmente se ne andò alla fine dell'estate, la ragazza riprese a
studiare e quindi andò via e la vita ricominciò a scorrere con i soliti ritmi di
tutti i giorni, in attesa probabilmente di qualche altro sussulto.
Certo, viste alla luce di oggi queste cose appaiono ridicole, ma allora facevano
parte del modo di pensare comune, così come diverso da oggi era il cosiddetto
comune senso del pudore.
Gli anni passavano e piano piano diventavamo grandi: Nietta si diplomò e
incominciò ad insegnare nelle scuole serali e dopo tre anni mi diplomai anche
io.
In quegli anni già si parlava della chiusura della miniera. Prima erano delle
voci, qualche sentito dire, poi dei segnali più importanti, l'arrivo dell'ing.
Meloni che si diceva sarebbe stato quello che avrebbe chiuso la miniera. Babbo
lavorava ora al magazzino. quel lavoro gli creava grossi problemi perché
riteneva che la responsabilità fosse troppo grande e che egli non fosse
all'altezza del compito. In realtà succedeva che una persona che lavorava al
magazzino prima che arrivasse lui con il quale Babbo era amico e al quale si
rivolgeva per chiedere aiuto nel primo periodo, si rivelò un falso che dava dei
consigli sbagliati e poi andava dal Direttore a dire che assolutamente Babbo non
andava bene per quel lavoro e che bisognava toglierlo da lì. Per fortuna il
Direttore capì la situazione anche perché aveva una grande stima di Babbo
riguardo l'onestà, l'impegno e le capacità, per cui trasferì quella persona e da
quel momento Babbo poté lavorare serenamente dimostrando anche in quel caso il
suo valore, tanto che venne mandato anche in alcune miniere dell'Iglesiente
quando queste chiusero e si dovettero azzerare i magazzini.
Il primo lavoro che feci mi fu commissionato proprio dall'ing. Meloni che mi
diede l'incarico di rilevare l'impianto elettrico esterno che alimentava le
abitazioni di tutta la miniera. Poi capii che questo lavoro serviva, assieme a
tanti altri, a rilevare la situazione patrimoniale necessaria alla
valorizzazione della miniera in vista della vendita conseguente alla chiusura.
Si fecero diversi tentativi per scongiurare la chiusura. Lo stesso ing. Meloni
rifiutò inizialmente quest'idea perché si rendeva conto che tale chiusura
avrebbe significato la perdita del lavoro per quasi un migliaio di persone.
Cercò di impostare un serio programma per la ricerca di altri filoni ricchi di
minerale, e verificando, attraverso gli studi del terreno, che sotto il mare
dovevano esserci dei giacimenti particolarmente ricchi. Per poter sfruttare
questi giacimenti però gli investimenti sarebbero stati molto grandi e la
Società non aveva alcuna intenzione di spendere tanti soldi in qualcosa che non
dava certezza da un punto di vista economico data la mutata situazione
internazionale che già vedeva un progressivo aumento degli scambi commerciali
tra i paesi europei. Ciò significava che, pur con tutta la buona volontà, il
costo del minerale estratto in Sardegna e portato in Continente dove c'erano le
industrie manifatturiere non avrebbe mai potuto competere con quello di uno
stesso minerale proveniente dai paesi europei in quanto per questi ultimi
l'incidenza delle spese di trasporto era sensibilmente inferiore. La fine
dell'Argentiera e di tutte le altre miniere sarde era perciò segnato.
Tra le iniziative intraprese in quel periodo per scongiurare la chiusura ricordo
il ricorso alla stampa nazionale oltre a quella locale. Il mensile Panorama si
interessò molto al problema con tanti articoli e tante fotografie ma anche
questo non servì.
La nostra famiglia fu tra le ultime a lasciare la miniera con un grande
dispiacere di Babbo e Mamma.
Quando questo avvenne io lavoravo già e stavo a Sassari a casa di Nietta che si
era sposata proprio l'anno del mio diploma.
Castelmeteo. Un sito dedicato a Castelvetro di Modena, meteorologia, arte, gallerie di foto antiche, moderne e la storia dell'antica fornace. A cura di Vinicio Cavallini
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